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Trinità se n’è andato dicendo una sola parola. Grazie. Tra le labbra. Silenziosamente. E timidamente. Come si era affacciato al mondo del cinema, ancora giovanissimo.
Lui che veniva dallo sport. Dal nuoto, in particolare. Il suo fisico imponente – 193 centimetri per 125 chili – lo aveva lanciato verso i traguardi della vasca. Fu il primo atleta italiano a scendere sotto il muro del minuto nei cento stile libero. Partecipò a tre Olimpiadi – Helsinki 1952, Melbourne 1956 e Roma 1960 – e nelle prime due arrivò in semifinale. Erano anni in cui nell’acqua volavano americani e australiani.
Carlo Pedersoli – questo il nome dell’atleta che la celluloide avrebbe celebrato come Bud Spencer – al grande schermo non era mai stato particolarmente interessato. Eppure, divenne il gigante buono. In virtù di quel fisicaccio che aveva subito fatto aguzzare gli occhi ai registi. Nei primi film – Siluri umani e Un eroe dei nostri tempi – fu infatti accreditato secondo l’anagrafe. Monicelli non se ne preoccupò. Andava benissimo accanto a Sordi. Lui, Nando, nerboruto fidanzato di Giovanna Ralli, era quello che serviva. Quattro film «vestito» da Pedersoli e tre senza essere accreditato, bastarono per lanciarlo nell’empireo di Cinecittà.
A Roma, Trinità approdò quando il padre fu trasferito per ragioni di lavoro. Direttamente dal quartiere Santa Lucia di Napoli. Dove era nato. Seguì la famiglia anche in Sudamerica, in Brasile, ma la sua patria vera sarebbe rimasta per sempre la capitale. Vi tornò a undici anni e non si mosse più. Al cinema arrivò sposandosi. La moglie, di un lustro più giovane, era la figlia di un gestore di sale romane, ma il destino gli avrebbe riservato ben altro. Dopo quell’inatteso esordio, a notarne le potenzialità fu Giuseppe Colizzi, uno dei nomi più celebri degli spaghetti western.
E Carlo Pedersoli divenne Trinità. Lasciò perdere quel cognome un po’ così e cercò qualcosa di yankee. Fece una fusione tra grandi divi della Settima Arte e grandi birre. Ne venne fuori Bud, primo segmento della Budweiser e Spencer, in omaggio a Spencer Tracy, l’indimenticato papà retrò di Indovina chi viene a cena. E da allora fu Bud Spencer, ma non restò mai solo. Quel nome non esisteva se non in coppia con un «fratello» biondo e meno pesante di lui, ma ugualmente svelto di mano. Terence Hill. Insieme hanno scritto le pagine più avvincenti di certo cinema per ragazzi e di western all’italiana. Dio perdona… io no!, Al di là della legge e I quattro dell’Ave Maria sono i titoli più noti prima che Pedersoli-Spencer diventasse Trinità. Incontrasse il compagno di scazzottate e divertisse i ragazzini degli anni Settanta con Anche gli angeli mangiano fagioli, Piedone l’africano, Lo chiamavano Bulldozer.
Ma Bud Spencer non era solo il gigante che prendeva a pugni i cattivi, naturalmente finti anch’essi, sul bancone di un saloon all’amatriciana. Aveva conosciuto il peplum, film di origine storico, ad inizio carriera. Quando non sapeva che avrebbe fatto l’attore tutta la vita. E non si lamentò se in Quo vadis? di Mervin LeRoy non fu nemmeno accreditato. La sua fama, così legata a Trinità e Banana Joe, ha fatto dimenticare che Bud Spencer attraversò anche il thriller. In Quattro mosche di velluto grigio recitò per Dario Argento quando era ancora il re del brivido e non si era convertito all’horror. Per Ermanno Olmi ha girato nei panni di un vecchio capitano di vascello in Cantando dietro i paraventi.
Non lo hanno ucciso le botte. Ne diede tante e non ne prese affatto, perché era grande. Ma soprattutto perché difendeva i deboli. I buoni. I poveri. A volerlo riportare lassù è stata l’età. Il 31 ottobre ne avrebbe compiuti 87. Tanti anche per un atleta vero. Lui che nacque pesando già sei chili e mettendo a dura prova la resistenza di sua madre, aveva un fisico sotto continuo stress, dovuto al peso. Recentemente aveva avuto vari guai e a più riprese è stato ricoverato nell’ospedale dove ieri, alle 18.15, ha deciso di dire basta a cure inutili. Per questo ha detto «grazie» E se n’è andato.